Per una volta permettetemi di non parlare di fumetti, di arrivi o di ordini. Pubblico dal gruppo MOLESTE il loro editoriale che sottoscriviamo in ogni sua singola parola. Scusate se è una presa di posizione forte ma proprio perché l’argomento è di massima attualità e importanza ritengo corretto mostrare in toto come la penso sull’argomento.
–Piermaria
“Le colpe delle vittime” di Susanna Raule
Illustrazione di Elena Casagrande
Quanto piace a certa gente la parola con la P. Quanto gli piace scriverla, dirla o, se proprio non si può fare altrimenti, pensarla.
Se anche non la usano, fanno in modo che venga comunque in mente a chi sta ascoltando.
Perché la tale persona, vittima di abusi, non si è comportata da manuale della “brava vittima”? Perché non ha gridato, scalciato, non si è fatta rompere almeno un labbro? Perché ha bevuto, perché ha flirtato? Perché indossava un vestito provocante?
La risposta è semplice, e comincia con la P.
Cambi ambito e il discorso di chi si pone certi dubbi, alla fin fine resta lo stesso. E la risposta.
E forse la fascinazione per questa parola aiuta a spiegare perché, leggendo le testimonianze di persone che hanno smesso di fare fumetti dopo aver subito le attenzioni indesiderate di professionisti più famosi, inseriti e potenti di loro; dopo aver letto le testimonianze di persone che sono state violentate da quei professionisti, adescate da quei professionisti, traumatizzate da quei professionisti e, nel migliore dei casi, deluse a morte dal punto di vista umano da quei professionisti… dopo tutto questo, dicevo, l’unica considerazione, per alcuni, è stata che “le ragazze l’hanno data via per lavorare”.
Questo nonostante non ci sia una singola testimonianza di qualcunə che l’abbia effettivamente data via per lavorare.
Stiamo facendo un glossario e, non temete, “victim blaming” è proprio in cima alla lista delle definizioni da inserire.
Diciamocelo, dare la colpa alle vittime è così facile.
La vittima, per esempio, è stata “troppo ingenua”. Perché, giustamente, chi non dovrebbe aspettarsi l’invio di fotografie pornografiche da un datore di lavoro? Che ingenuità pensare che non sia una prassi consolidata.
Ah, non lo è?
Quindi, forse, la vittima non è stata così ingenua.
Oppure la vittima ha avuto una “reazione esagerata”. Cioè, in pratica, non era una vittima e scema lei a non rendersene conto. Avrebbe dovuto evitare di restare traumatizzata per così poco perché, come tutti sappiamo, quello del trauma è un muscolo volontario. Se non vuoi restare traumatizzata, non succede.
Wow, quanti malintesi, da Freud in giù. Ci voleva così poco.
Un’altra tesi è che la vittima non abbia “reagito”. Altro muscolo volontario, quello della reazione alla Ellen Ripley. O forse no, forse è una dote che va allenata. In pratica, queste vittime inadeguate non avevano seguito il corso per la reazione da action movie che qualunque persona dovrebbe frequentare prima di farsi venire in mente di scegliersi un lavoro. Una specie di leva obbligatoria, ma solo per le possibili vittime di abusi. Se sei donna, se non sei etero, o binariə, se non rispecchi l’ideale di mascolinità alfa che tanto piace alla nostra società… non lo so, che altro? Se guardando In&Out hai detto “che deliziose tendine”? Ecco, allora è meglio fare già la preiscrizione, in modo che – quando verrete molestatɜ – possiate reagire subito nel modo corretto: menare, sparare e querelare il cadavere di quel bastardo.
Secondo alcuni, poi, la vittima non è abbastanza “coraggiosa”. Non ha avuto il coraggio, ossia, di uccidere senza esitazione il sogno, magari coltivato fin dall’infanzia, di fare fumetti. Non ha voluto correre il rischio di non lavorare mai più nel settore, ha avuto il timore di essere etichettata per sempre come una persona con cui “è difficile lavorare”. E se n’è stata zitta.
E se la vittima se n’è stata zitta, niente, quella di parlare era un’opportunità unica, come quando qualcuno è contrario a un matrimonio: parli ora o taccia per sempre. Vietato avere ripensamenti, vietato rendersi conto con ritardo di aver agevolato la vita a un molestatore.
Bisognava agire subito, e chi se ne frega degli anni di studio buttati giù per lo scarico! Su, energia!
Quanto è comodo fare questi discorsi con la carriera degli altri.
Oppure la vittima era un po’ puttana, quindi se l’è cercata.
Essere puttana è facilissimo, basta rispondere alla chat di uno che ti fa i complimenti per il tuo lavoro. Se in seguito ti spedirà la foto del suo pene, tu sei stata un po’ puttana. Basta innamorarti del tizio che vuole solo portarti a letto, o finire a letto con il tizio che ti ha riempita di complimenti fino a farti sentire speciale. Basta credere alle bugie del tuo molestatore, basta esserti sentita lusingata anche una sola volta dai suoi complimenti, basta avere così bisogno di un lavoro da tollerare atteggiamenti poco professionali.
Basta aver creduto che il tuo molestatore fosse tuo amico.
Io vorrei solo sapere quanti di voi vorrebbero vivere così. Essere così. E, guardate, tante colleghe in pratica lo sono diventate. Hanno l’abitudine di non chiudere mai la porta ai colloqui di lavoro, di non lasciare mai il proprio numero (nemmeno a possibili utili contatti professionali), non rispondere ai messaggi privati (me compresa), essere sempre in guardia, sempre pronte a proteggersi. Non sto parlando al femminile a casaccio. La maggior parte delle persone che finisce per avere problemi di questo tipo è una donna. Se non sono donne, appartengono a qualche segmento di società che non è allineato all’ideale eterocis. E poi ci sono anche degli uomini, magari eterocis, che quando vengono molestati devono sentirsi pure spiegare dai loro amici quanto siano stati “fortunati”.
Allora, vorrei che facessimo un esercizio tutt3 insieme, per il bene di tutt3: smettiamola di tirare in mezzo la vittima, quando leggiamo la testimonianza di un abuso.
Perché a tuttɜ noi può capitare di non essere tostɜ, di essere in un brutto momento, di fidarci di una persona che stimiamo, di pensare che i complimenti di qualcun altro siano in buona fede… a tuttɜ può capitare di non riuscire a reagire, di darci la colpa anche se non avevamo colpe (e chissà perché, eh?), di trovare scusanti a qualcuno che amiamo, di restare feritɜ e traumatizzatɜ. Non sono muscoli volontari, non c’è una specie di servizio di leva per addestrarci.
Anche al più tosto di noi può capitare un momento di fragilità. Non sono le vittime a dover essere più forti, sono i molestatori che devono astenersi.
Cambiamo una piccola cosa, ma fondamentale: quando sentiamo parlare di un abuso, mettiamoci dalla parte della vittima.
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